"Se non ti mostri sei uno sfigato": a 16 anni costretto al sexting

Da "La repubblica" un'iniziativa interessantissima.
Grazie all'aiuto di esperti e operatori del settore, si cercherà di dare una risposta ai problemi legati al CYBERBULLISMO, ai dubbi, oppure si sarà indirizzati a chi possa aiutarvi scrivendo all'indirizzo osservatoriocyberbullismo@repubblica.it.

"Qualche mese fa, mio figlio è entrato a far parte di un gruppo di whatsapp costituito da suoi coetanei. Sia ragazzi che ragazze. Non ci è entrato di sua volontà, ma è stato aggiunto. Il nome di questo gruppo è “se non ti mostri sei sfigato”. Da subito in questo gruppo sono circolati messaggi di testo, audio e foto con contenuti sessuali espliciti. Ma nessun messaggio e soprattutto nessuna foto erano “personali”. Ad un certo punto però uno dei ragazzi maschi manda una sua foto a petto nudo con un messaggio di sfida “chi ha il coraggio?”. Da quel momento cominciano i messaggi espliciti, gli incitamenti ad inviare foto intime. Un ragazzo manda foto del suo sedere e i commenti piovono. Incitamenti, gradimenti, sfottò. Giorgio guarda ma non reagisce, commenta ma non partecipa alla sfida. Cominciano ad arrivare le foto anche delle ragazze. Prima qualcuna timida, poi foto di seni. Gli animi si accendono nel gruppo, entrano altri ragazzi, il giro si allarga ad una cinquantina di componenti del gruppo. Le foto diventano sempre più esplicite. Cominciano a girare anche alcuni video pesanti. Giorgio si sente escluso. Decide di mandare anche la sua foto, a petto nudo, senza faccia. Ma viene riempito di insulti. Allora ne manda una con la faccia. E viene invitato a mandarne una tutto nudo. Esita per qualche ora, ma vedendo il numero di messaggi che aumenta (così come il contenuto delle foto), decide di farsene una nudo e la posta. Adesso anche lui è davvero nel gruppo. Purtroppo in questo gruppo entrano, coinvolti non si capisce da chi, anche alcuni adulti. Noi genitori siamo venuti a conoscenza di questo gruppo dall’allenatore di calcio di nostro figlio che è stato inserito, non si capisce bene come, in questo gruppo. È stato proprio l’allenatore a riconoscere Giorgio e a decidere di informarci dopo averne parlato con lui e aver percepito il suo profondo disagio. Abbiamo così affrontato Giorgio direttamente per parlare con lui della questione e abbiamo deciso di rivolgerci alla polizia postale. Abbiamo fatto la scelta giusta? Quali saranno le conseguenze? Come possiamo supportare nostro figlio?"

Parere legale
Avv. Marisa Marraffino

Per prima cosa i genitori di Giorgio possono sporgere querela in sua vece e in caso di disaccordo col figlio prevale la loro volontà. A disporlo è l’art.120 secondo comma del codice penale. Il motivo di questa estensione sta nel fatto che per la legge il minore ultraquattordicenne ha comunque una ridotta capacità di apprezzare le conseguenze lesive di un reato e le relative possibili implicazioni anche dal punto di vista patrimoniale e morale (Così tra le tante Corte di cassazione del 28 maggio 2013, n. 13010). Giorgio può però essere imputabile perché dai 14 anni in su la legge lo prevede espressamente, art. 98 c.p., e quindi può rispondere personalmente dei reati eventualmente commessi. I genitori di Giorgio fanno bene a intervenire in questa fase che può essere prodromica ad altri eventi ancora più gravi. WhatsApp per la legge è una piattaforma informatica che può essere aperta a una pluralità indistinta di persone. Le offese a mezzo gruppi WhatsApp possono integrare il reato di diffamazione aggravata previsto e punito dall’art. 595/3 c.p. con la reclusione fino a tre anni. Lo stesso principio vale per i messaggi offensivi inviati via mail a più destinatari. Per la giurisprudenza la condotta non integra l’ingiuria (oggi depenalizzata dal d.lgs 7/2016) ma il ben più grave reato di diffamazione aggravata (Corte di cassazione, sentenza del 6 aprile 2011 n. 29221). I giudici equiparano la mail a un “formidabile mezzo di pubblicità”, quando viene utilizzato lo strumento del forward a una pluralità di destinatari. In questo caso Giorgio invia di sua spontanea volontà le proprie fotografie nudo e questo per una recente sentenza della Cassazione basterebbe ad escludere il reato di cessione di materiale pedopornografica da parte degli altri che eventualmente inoltrino le sue foto a terzi. (Corte di cassazione, sentenza del 18 febbraio 2016 n. 11675). In realtà, a parere di chi scrive, quando la condotta è tale da creare turbamento e addirittura da far modificare le abitudini di vita della vittima che voleva mantenere all’interno di un gruppo ristretto le proprie fotografie, potrebbe integrarsi il reato di stalking, se la diffusione diventa virale e incontrollabile, anche al di fuori della piattaforma in cui la vittima le ha originariamente condivise (Sulla configurabilità del reato di stalking nel caso di diffusione di foto intime on line v.Cassazione penale, sez. V, 16/12/2015 n. 21047). Giorgio fa bene a togliersi dal gruppo, anche se tracce del suo passaggio possono restare in rete. Il fatto di non aver inviato commenti offensivi porta ad escludere la sua responsabilità nel reato di diffamazione aggravata. Per alcuni giudici però basta un “mi piace” su Facebook a un commento diffamatorio per far scattare la diffamazione. In questo caso però Giorgio non si è nemmeno iscritto al gruppo, ma è stato aggiunto, e non ha commesso alcuna condotta attiva che possa concorrere nel reato di diffamazione commesso dagli altri.

Punto di vista educativo
Ivano Zoppi, Presidente di Pepita onlus

La cronaca ci racconta sempre più spesso di questi casi. Adolescenti che pur di non sentirsi esclusi (FOMO – Fear of Missing out, la paura di essere esclusi), si lasciano trasportare e coinvolgere in situazioni pericolose e lesive della propria identità e intimità. È proprio su questo che occorre puntare l’attenzione educativa: cosa spinge i nostri ragazzi a condividere immagini della propria intimità? La scelta di recarsi alla polizia postale per la denuncia è certamente corretta. Non può però essere la sola azione che viene portata avanti. Occorre attivare interventi su due fronti:
• La classe, e dunque la scuola. Occorre un intervento educativo per
sensibilizzare su quanto accaduto; affrontare con i ragazzi la
tematica relativa all’uso corretto e consapevole delle tecnologie;
ma anche, e forse soprattutto, devono riflettere sul rispetto della
propria intimità e della propria identità, su cosa è giusto o no
condividere. Devono percepirsi come un’opera d’arte unica, autentica,
originale ed irripetibile e, per questo, preservarsi, conservare la
propria identità, la propria privacy
• Giorgio e la sua famiglia. Un sostegno mirato sia dal punto di vista
legale che psicologico. Giorgio dovrà affrontare un percorso nel
quale recuperare l’autostima e il rispetto per la propria intimità.
Questo però non può prescindere dalla presenza educativa dei
genitori. Presenza e sostegno, fargli capire che nelle difficoltà la
famiglia è un punto di riferimento.

Pubblicato il 30/09/2016
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