SONO INFORMAZIONI personali e riguardano le abitudini di tutti i giorni: dai gusti, alle telefonate, passando per le pagine web e i luoghi visitati. Siamo disposti a venderle. Tutte, in cambio di PASTA E CAPPUCCIO. Due euro, circa: è infatti il valore medio che diamo al mare di notizie prodotte quotidianamente, minuto dopo minuto, durante la nostra vita digitale e volgarmente conosciute con il nome di Big Data. Una quotazione però destinata a crescere in momenti particolari e in relazione ai nostri spostamenti. L'ha scoperto un gruppo di ricercatori che ha monitorato gli smartphone di sessanta persone per sei settimane. Uno studio condotto dal 28 ottobre all'11 dicembre 2013 su uomini e donne trentini di varia estrazione sociale, d'età compresa tra i 28 e i 44 anni. L'indagine è stata guidata da Telefonica, in collaborazione con la fondazione Bruno Kessler e DISI Università di Trento, e sarà presentata all'Ubicomp di Seattle, la conferenza internazionale sulle tecnologie pervasive, a metà settembre.
"I volontari hanno ricevuto un cellulare, delle ricariche, chiamate, messaggi e accesso a internet", dice Jacopo Staiano, dell'Università di Trento, che ha gestito le analisi. "In cambio, abbiamo installato sui dispositivi un software capace di monitorare tutte le attività che svolgevano sul telefonino". Un sistema che a ora di pranzo li poneva di fronte a quattro categorie d'informazioni, elaborate il giorno precedente: comunicazioni, localizzazione, applicazioni usate, e media, cioè le foto scattate a orari specifici. Più la domanda: quanti soldi vuoi per darci i dati che hai prodotto? "Per ogni tipologia di notizie si partecipava a una sorta di asta inversa, un meccanismo che abbiamo scelto per non falsare i risultati e forzare l'onestà delle valutazioni: per cui vinceva chi aveva fatto l'offerta più bassa, ma riceveva la somma di denaro che aveva chiesto il secondo classificato".
Il metodo ha fornito agli studiosi tantissime grandezze su cui lavorare. Conclusioni: le variabili socio-demografiche come sesso, età, e istruzione, non incidono sulla gestione delle informazioni. Segna, invece, il grado di mobilità. Spiega Staiano: "Più l'utente si sposta durante il giorno, più tende a considerare i suoi dati importanti. La geolocalizzazione è considerata la notizia più personale e, quindi, più privata". "M'inquieta far sapere dove sono stato", "non voglio essere geolocalizzato": sono le frasi che il team ha sentito ripetere più spesso. "Tutto, si presuppone, che avvenga a un livello inconscio. Abbiamo poi notato delle anomalie: giorni in cui i volontari chiedevano, in cambio, una somma di denaro più alta". Si trattava di momenti particolari, in cui si sfuggiva alla solita routine: l'otto dicembre, giorno dell'Immacolata Concezione, e una mattina in cui a Trento c'era stata una tempesta che aveva bloccato il traffico. "Anche in quei casi, però, le persone monitorate non hanno chiesto che pochi euro e la cifra si abbassava tra chi era abituato a usare più applicazioni".
Aggiunge Bruno Lepri, coordinatore del Mobile Social Computing Lab di Trento, anche lui coinvolto nella ricerca: "Al momento, la sensazione diffusa tra i consumatori è che questi dati abbiano un valore molto basso. In realtà, il loro potenziale di mercato è altissimo. Soprattutto se consideriamo che ne saranno prodotti sempre più". Una mole di dati destinata a crescere, secondo gli analisti dell'International data corporation, del 40% entro il 2020. "Il nuovo petrolio di internet e la nuova moneta del mondo digitale", li aveva definiti già nel 2009 Meglena Kuneva, presidente dell'European Consumer Commissioner. Un tesoretto attualmente nelle mani dei cosiddetti data broker, che grazie a smartphone, social network, cookies e sensori collezionano informazioni su chi siamo, chi conosciamo, dove siamo, dove siamo stati e persino dove progettiamo di andare. Con l'obiettivo di rivenderle, a nostra insaputa e con buona pace della privacy, alle grandi compagnie commerciali, assicurative e finanziarie pronte a usarle per pubblicità, polizze e crediti su misura. Il prezzo è di circa 0.0005 centesimi di dollari l'una, ha stimato il Financial Times lo scorso anno, ma la valenza è molto più alta perché, come avverte un report del World Economic Forum del 2011, minando e analizzando i gigabyte disseminati in rete e non solo è possibile "avere l'abilità di capire e persino predire dove gli umani focalizzeranno la loro attenzione e le loro attività a livello individuale, di gruppi, e globale", quindi anche che cosa compreranno.
Uno scambio difficile da fermare e controllare: impossibile dire con esattezza che cosa finisce nelle mani di chi; una sola certezza: "L'unico a non aver alcuna voce in capitolo è proprio chi produce le notizie, cioè gli utenti", prosegue Lepri. Ed è proprio con lo scopo di ridare ai cittadini potere e controllo sulle conoscenze personali che nel 2012, con Telefonica, Telecom Italia, il Massachusetts Institute of Technology e sotto la direzione di Fabio Pianesi, Lepri e Staiano hanno messo in piedi un laboratorio territoriale. "La ricerca che abbiamo fatto s'inserisce in questo contesto. Il nostro intento è analizzare, e dimostrare, che cosa si può fare con i Big Data e, allo stesso tempo, dare all'utente la possibilità di gestirli: potrà finalmente scegliere se venderli, che cosa vendere e in cambio di quali servizi. O persino, se lo desidera, di mantenerli privati".