Ho disattivato il mio account Facebook da oltre un mese. Lo avevo aperto nel 2008 e dopo aver festeggiato sette compleanni insieme agli "auguriiii :-)" dei miei oltre 900 amici, visto nascere i loro figli, morire i loro gatti, crescere i loro amori, condiviso gioie e dolori di persone incontrate una sola volta nella vita, alla fine ho scelto di smettere di guardare le foto delle loro vacanze e dei loro panini.
L'ho fatto perché di Facebook ero diventata dipendente. Non solo non ero riuscita a dosare la mia presenza social, ma soprattutto non avevo dominato la compulsione di guardare perennemente lo schermo del telefonino muovendo in alto l'indice. Dalla mattina - ancora nel letto - alla colazione, passando per il bagno (si salva la doccia perché lo smartphone non è impermeabile). Poi in macchina - al semaforo nessuno suona più quando scatta il rosso, come te stanno tutti chattando su Facebook - al lavoro, dopo il lavoro, durante l'aperitivo mentre l'amico parla e tu lo ascolti ma non lo guardi perché gli occhi sono incollati sulla pagina biancoblu, a cena, dopocena, al cinema, al concerto, a letto. Addormentarsi su Facebook. Come se fosse normale.
Non riguarda tanto sapere cosa stanno facendo gli altri o cosa sta succedendo nel mondo, quanto riempire i tempi morti della giornata - e non solo quelli - con un'azione artificiale. In attesa dal parrucchiere, in coda al supermercato, a una cena, in spiaggia: tirare fuori lo smartphone, piazzarsi sull'homepage del social preferito e restare lì mentre intorno la vita reale si muove. Come i bambini davanti ai cartoni animati e i padri che guardano il Tour de France nei pomeriggi d'estate, tu gli parli ma non rispondono, sono assorti, quasi assuefatti. A me con Facebook capitava la stessa cosa.
Ne ho parlato con gli amici e ho capito che non ero la sola ad avere il problema. Per noi, gente con più di trenta anni, senza figli, spesso senza lavoro, con molta arte, abbondante vita sociale e tanto tempo a disposizione, "scrollare" è diventato una dipendenza. E con scrollare intendo quel movimento del dito indice che accarezza verso l'alto lo schermo di un cellulare di ultima generazione per visualizzare a cascata gli aggiornamenti dei principali social network. Basta fare il test del treno e si capisce che la cerchia di addicted non include solo me e i miei amici. Salite su un vagone - ma va bene anche l'autobus - sedetevi e guardatevi intorno. Il colpo d'occhio sarà questo: decine di teste chine sullo schermo, il volto illuminato, l'indice in azione. E dire che fino a qualche anno fa quelle teste avrebbero guardato oltre il finestrino o le righe di un libro o gli occhi di uno sconosciuto.
Io il 4 agosto ho deciso che non volevo essere più una testa china quindi ho disattivato il mio account. Facebook mi ha chiesto perché e io ho risposto perché passavo troppo tempo online; lui mi ha suggerito che avrei potuto ridurre le notifiche, io gli ho detto che non mi interessava più; lui ha giocato la carta del senso di colpa mostrandomi le foto dei miei migliori amici e dicendomi che a loro sarei mancata, non ho vacillato e così io e Facebook ci siamo lasciati. Come per ogni dipendenza che si rispetti - penso al fumo - ero in attesa del momento in cui avrei sentito il desiderio di scrollare di nuovo, di visualizzare il quadratino rosso della notifica, di sapere se Franca aveva trovato il vestito per il matrimonio di Carla. E invece no, invece mai. Articolo di Benedetta Pirelli de L'ESPRESSO
L'ossessione da like che ci rende vulnerabili.
Potremmo definirla "depressione da like". Anzi, meglio, da mancanza di like, e di post, poke, notifiche, messaggi, richiami, tweet e re-tweet. Tutti quegli "avvisi" che anche nella giornata più grigia ci danno la sensazione di esistere, di essere in comunicazione oltre il nostro spazio fisico, di avere, perché no, una montagna di amici. Al contrario, quando Facebook tace, e Twitter non cinguetta, e Instagram non commenta le nostre foto, il mondo pare oscurarsi. Senso di solitudine, rabbia, esclusione, pianto: così insospettabili adulti, donne e uomini di tutte le età, hanno descritto i loro stati d'animo nel rapporto con Facebook in particolare, in quei momenti in cui è impossibile connettersi, o quando, come accade, ciò che scriviamo e "postiamo" non riceve l'attenzione dovuta. Adulti che si definiscono perfettamente integrati, impongono ai propri figli il coprifuoco su tablet e pc, e poi con l'appendice fisica del loro smartphone replicano invece la modalità "sempre connessi" propria degli adolescenti. Con la differenza, però, spiega Paolo Ferri, docente di Teoria e tecnica dei nuovi media all'università Bicocca, che i più giovani ormai hanno capito l'inganno, "sanno che molti di quei contatti sono pura illusione, e preferiscono il gruppo WhatsApp dei loro coetanei in carne ed ossa".
Il risultato è che lentamente il legame con i social diventa indispensabile, a casa, in ufficio, in auto, le chat sono sempre attive, una sorta di distrazione continua, un esercito di persone che vive, aggiunge Ferri, nella condizione di essere "alone together", soli insieme. Una dipendenza, dunque, da quella condizione di sé narrata sui social, e che spesso non corrisponde affatto alla realtà di esistenze assai meno "splendenti" delle foto postate. Gli esperti però sono cauti. Se infatti per i giovani la famosa "sindrome da internet" che sconfina nell'auto reclusione degli Hikikomori giapponesi è una patologia ormai codificata, per gli adulti la "malattia" sfugge ancora sia alla consapevolezza che alle statistiche. "Potremmo indicare un 5% della popolazione sopra i vent'anni che ha un rapporto insano e pericoloso con i social - aggiunge Ferri - e mostra alcuni aspetti della dipendenza. Il controllare ossessivamente i messaggi, accumulare amici pur di fare numero, contare i like come specchio del proprio narcisismo, sentirsi esclusi quando la rete tace. Ma forse più che parlare di dipendenza, questa connessione continua è lo specchio di una nevrosi. Ossia 'l'ostensione di sé che luoghi come Facebook permettono, il gioco autoreferenziale di mettere in piazza la propria vita, spesso senza pudore. E sentire così di essere nel mondo".
E' vero però che alcuni segnali possono dirci se abusiamo della rete: la quantità di ore passate su Facebook e simili, il tempo rubato alla vita reale, il controllo delle vite degli altri, l'invidia che gli utenti ossessivi dei social provano, ad esempio, per gli scatti felici delle esistenze altrui. Ed è proprio dai meccanismi di "controllo ossessivo" che secondo Davide Algeri, psicologo esperto di "terapia strategia breve" si può capire se ci sono i sintomi della dipendenza.
Spiega Algeri: "Fino ad ora le situazioni più a rischio le ho viste dopo le separazioni, quando un matrimonio o un fidanzamento si rompe. Accade spesso che uno dei due ex (quasi sempre chi è stato lasciato) inizi a spiare in modo compulsivo la vita dell'altro, cercando di capire se è felice, se ha nuove amicizie, nuovi amori, nuove passioni. Facebook in queste situazioni non fa altro che esaltare un voyuerismo malsano, che certo non aiuta a creare altri legami". Potendola spiare, insomma, è come se si restasse legati alla relazione precedente. Pur con cautela, Algeri ritiene che il rapporto compulsivo degli adulti con i social si potrebbe definire una "dipendenza senza sostanza". I segnali? "L'angoscia da mancanza di like, la delusione se scopriamo che il nostro messaggio è stato letto ma nessuno risponde, il panico se manca la connessione, la frustrazione di cliccare mille volte e non trovare niente di nuovo, ma anche il gesto automatico di controllare Facebook come primo gesto del mattino e come ultimo gesto prima di andare a dormire". "Per fortuna - spiega lo pisocologo - gli adulti non si isolano o auto-recludono come accade nei casi più gravi per gli adolescenti. Però esaltano lati di sé altrettanto pericolosi, come l'esibizionismo, o il bisogno di un apprezzamento sociale sulla rete, che poi si rivela del tutto fittizio".
E allora la prima strategia per uscire dalla dipendenza, è riconoscerla. Ed è difficile, visto che la patologia si cela dietro comportamenti assolutamente normali, o quantomeno non deviati. "Il primo campanello d'allarme è il numero di ore che di giorno e di notte si passano sui social. Ossia la connessione continua. In questi casi bisogna spezzare il cerchio, e decidere di dedicare alla rete soltanto alcuni appuntamenti precisi: un'ora la sera, un'ora nella pausa pranzo, ad esempio. Basta. Quando poi la sofferenza si fa più acuta, e ci si accorge di non riuscire a vivere senza quello specchio, allora è il caso di chiedere aiuto". E quasi sempre la disintossicazione passa attraverso una riappropriazione della vita reale. Una passeggiata con un amico ad esempio, piuttosto che cinquemila contatti e qualche centinaio di "mi piace" su Facebook. Articolo di MARIA NOVELLA DE LUCA